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Dimmi la verità: educare i bambini al turbamento

“Dimmi la verità: educare i bambini al turbamento” di Margherita Cennamo e Nader Ghazvinizadeh

“Chi ero io, prima di nascere?”. “Chi eri tu, prima che io nascessi?”. “Perché tu e la mamma mi avete fatto?”. Anche dalle risposte a queste domande il bambino costruisce la propria identità.

Dal primo dopoguerra fino alle contestazioni studentesche, l’istituzione scolastica e quella famigliare presentavano tratti comuni. La scuola italiana non era erede della maieutica, né dell’apostolato di Filippo Neri. Non socratica, né cristiana: la scuola dell’obbligo prendeva ispirazione dalla leva obbligatoria. Le maestre, da sempre in maggioranza rispetto ai colleghi maschi, erano materne, eppure marziali, come marziali erano le madri. Educazione e Pedagogia avanzavano parallele, ma in fondo erano tra loro estranee: la prima si basava sull’istruzione, la seconda sull’esperienza. Istruzione ed esperienza, nella scuola italiana, non si sono mai toccate. Così le domande che l’esperienza di vivere porta con sé sono rimaste senza risposta. La scuola ha delegato le risposte alle famiglie, ma non tutte erano all’altezza di fornirle. Così l’istituzione scolastica, concepita, anche, per riequilibrare le differenze sociali, le alimentava. Non si trattava di rispetto dei ruoli: i maestri delegavano le risposte ai genitori per non compromettersi, i genitori non affrontavano gli argomenti per imbarazzo.

Qualche mese fa un gruppo di insegnanti è venuto al mio Burattinificio per assistere allo spettacolo “La Borda: storia di una migrazione”.

La rappresentazione è stata organizzata grazie alla pedagogista Emanuela Dozza, che ha visto ed apprezzato lo spettacolo, e l’ha quindi segnalato ad un gruppo di ventinove insegnanti di una scuola bolognese che, con un appello su Facebook aveva dichiarato che “avrebbero dedicato una parte più ampia delle proprie attività didattiche per condividere con le proprie classi gli eventi drammatici che coinvolgono donne e uomini migranti”. Durante lo spettacolo è stato messo in scena un dialogo tra una bambina migrante e la Morte. Al termine della rappresentazione, di fronte ad una platea raggelata, ho chiesto le opinioni degli insegnanti: alcuni di loro mi hanno risposto che non era possibile trattare l’argomento della migrazione in quel modo, che bisognava “mettere d’accordo ventisei teste” -si riferivano ai genitori- che alcuni bambini avevano subito dei lutti: una rappresentazione così diretta della morte avrebbe potuto ulteriormente turbarli. Una volta restata sola mi sono domandata: “Come possiamo parlare di migrazione se non siamo disposti a parlare di morte, di perdita, di tratta umana?”. Davvero parlare ai bambini di tutte queste cose può risvegliare in loro un trauma? Ritengo di no. I traumi nascono in conseguenza alla negazione o a seguito di un approccio brutale, privo d’amore, alla realtà. Noi del Burattinificio abbiamo scelto di affrontare argomenti reali attraverso una trama fantasiosa e l’abbiamo fatto raccontando il punto di vista dei vinti, non dei persecutori. “La Borda” parla del dolore di un lutto, della perdita delle proprie origini e anche della noncuranza di coloro che chiudono le porte a chi ha perso tutto. Il punto di vista è quello di una bambina persa nel mare, che alla fine del proprio percorso, nonostante le avversità, decide di credere all’amore verso la vita, verso l’umanità, eppure resta alla deriva. Le fiabe non sempre finiscono bene, educare al turbamento, quindi all’esistenza nel senso più completo del suo significato, implica verità narrativa. I bambini celano in loro quesiti esistenziali, perché domandarsi il senso della propria vita e delle proprie origini fa parte della natura dell’uomo. Se scegliamo di ignorare quei quesiti non aiutiamo il bambino a vivere una vita più serena, meno traumatica, ma semplicemente più superficiale. La superficialità non è leggerezza esistenziale, ma ignoranza emotiva. L’ignoranza emotiva implica pesantezza di vivere, perché chi ignora i sentimenti, chi sceglie di ignorarli, non impara a conoscerli e, di conseguenza, non sa gestirli.

“Non è valido”, “Lo vado a dire alla maestra”. Sono tra le frasi più frequentemente pronunciate dai bambini quando sono tra loro, in assenza di un adulto. Eppure queste frasi lo evocano, l’adulto, ne evocano l’autorità normativa. “Dimmi la verità” si sente dire meno spesso, eppure è implicito: il bambino, a differenza dell’adulto, sa di non sapere. Il bambino non sa, pretende di sapere e pretende che gli venga detta la verità. Il bambino pretende, anche, di essere protetto, dalla verità. Parlare ai bambini della morte significa affrontare un argomento che pone sullo stesso piano adulti e bambini, ammettere il proprio turbamento, accogliere quello del bambino, non temere che le domande si moltiplichino. “A buon intenditor, poche parole” questo motto popolare non vale per gli oratori delle parrocchie, per i circoli filosofici. Se la scuola italiana fosse erede della Grecia antica e del cristianesimo le domande degli studenti non resterebbero senza risposta. Invece la scuola italiana è erede delle accademie militari napoleoniche, luoghi presso i quali “Il silenzio è d’oro”.

Anticamente i genitori ignoravano i professori e al contempo li invidiavano: li ignoravano perché la pedagogia era estranea alla loro educazione, li invidiavano per lo status che l’istruzione gli donava. Uno status che emancipava i maestri, anche, dal sistema di valori della famiglia di origine. Oggi il ruolo dell’insegnante è cambiato, non è riposta più in loro una fiducia incondizionata. Ma forse, azzardo, è anche giusto che sia così. La democrazia stessa ha messo in discussione il rapporto “dall’alto in basso” tra le istituzioni e i cittadini. La contestazione è una delle conseguenze della partecipazione. Il concetto di politicamente corretto non è democratico, ma burocratico: si serve delle regole della democrazia per non affrontare le regole della realtà. Molti di noi hanno conosciuto la pedagogia nera di certi insegnanti, la violenza che riversavano sugli studenti nel silenzio/assenso delle famiglie che si affidavano a loro, come ci si affida a un alleato. Agli insegnanti di oggi viene richiesto di motivare e difendere le proprie scelte. Devono saper educare i bambini e confrontarsi alla pari con coloro che se ne prendono cura.

Credo fermamente che noi adulti dobbiamo essere i traghettatori dei sentimenti dei bambini di oggi. Due insegnanti (presenti alla replica tenuta a Burattinificio in seguito all’appello on line sulla migrazione) hanno infine deciso di portare “La Borda” nella loro scuola. Hanno dovuto organizzare una riunione con i genitori di quaranta bambini e scontrarsi con le diffidenze, i dubbi e le domande di quei genitori. Sono riuscite a far capire loro l’utilità di quella scelta e oggi, dopo mesi di lavoro, hanno creato un video con i disegni e i pensieri dei loro piccoli studenti. Condivido questo lavoro con voi , aggiungendo che per me è un mirabile esempio di quello che dovrebbe essere il rapporto di scambio e collaborazione fra la scuola e gli artisti.

Una scuola in cui ci si muove in punta di piedi per non offendere nessuno è innocua. Non fa male, non fa nemmeno bene. Una scuola così non serve a niente.

Illustrazioni di Tomi Ungerer