Nove Lune
“Alla nona luna, la bimba nasce”: così mi hanno detto.
Fecondo Gennaio il mese convesso
cieli presagi di frumento
metabolismo muto nei campi in amplesso
abdica il corvo muto e si fa nevaio
il sonno si prende e si perde a metà notte
città/voliera città/granaio
da “Metropoli” di Nader Ghazvinizadeh
Questa poesia Nader l’ha scritta esattamente otto anni fa. Eravamo in via Bellombra, a casa di Livio, una casa che non c’è più ma che ci accompagna nei ricordi più vivi del nostro amore; ci frequentavamo da due mesi e avevamo appena iniziato a convivere. Dopo sei mesi ci saremmo sposati. Gennaio, il mese del letargo. Tutto dorme: i semi sotto terra, gli animali nelle loro tane… il mese dell’attesa. Dopo il sonno ci sarà il grande risveglio, l’esplosione della vita.
Sabato 23 dicembre c’è stato il mio ultimo spettacolo del 2017 a Burattinificio. Io, Nader e Federica abbiamo mangiato la pizza seduti sul tappeto. Poi è arrivato Matteo. E poi sono arrivati i bimbi e le loro famiglie: un’atmosfera di calore e di affetto quasi perfetta come saluto al Natale e alla chiusura -temporanea- di Burattinificio; manine, piedini, risate, abbracci, qualche lacrima perché l’Orco fa pur sempre paura, anche se alla fine viene -quasi- sempre battuto. Ho montato il “ponte sospeso ad un filo” di Emma esternamente alla baracca; così, per la prima volta, ho provato a fare quel che sognavo già da tempo: rendere lo spazio di Burattinificio un unico grande palco, senza divisioni fra la platea e il teatro, ma in cui i personaggi escono, si aggirano fra il pubblico. Un parco delle meraviglie a cielo aperto. Negli ultimi otto anni ho sempre lavorato la vigilia e il giorno dell’Epifania. Per un attimo, dopo il calore del 23 dicembre, ho avuto la tentazione di aggiungere una replica straordinaria per il pomeriggio del 6 gennaio. Ma, visto quanto è cresciuta la mia pancia nelle ultime due settimane (il mio “uovo”, come lo chiama Nader), ho ben presto compreso che era giusto aver chiuso. Burattinificio riapre ad ottobre 2018. Dopo la nascita di Neve prevedo di dedicarmi completamente a lei per almeno due o tre mesi. Impossibile fare pronostici: devo capire chi è lei e lei deve capire chi sono io e dobbiamo equilibrarci l’una sul ritmo dell’altra.
Adesso che siamo quasi al termine di questo “changeover”, questo periodo di trasformazione, lo ripercorro e mi rendo conto che avevo ragione quando scrivevo, a novembre 2015 : “…non credo che diventare mamma possa snaturare il carattere di una persona. Penso che la maternità sia un’esperienza privata, soggettiva e che possa acutizzare aspetti del proprio carattere: pregi, difetti, rigidità. Acutizzare, non cambiare. La maternità può essere uno specchio impietoso: ci mette a contatto con la parte più profonda, più intima di noi stesse”. La mia gravidanza è stata un’esperienza del tutto soggettiva, a dispetto dei tanti articoli che ho letto e che declamano a caratteri cubitali “cosa aspettarsi quando si diventa madri” o “cose che non sai prima di diventare mamma (e pensi di sapere)” e che mirano ad accaparrarsi un audience tanto ampia quanto superficiale, poiché non tengono conto dell’unicità di ogni essere umano, di ogni donna, di ogni mamma.
Il mio percorso di gravidanza è stato lo specchio, tenero e impietoso, fiabesco ma oscuro come lo sono solo le fiabe più antiche, della persona che ero e che sono diventata. Per prima c’è stata la paura; ho scoperto che dentro di me c’era quel seme di vita in un luogo a miglia e miglia da casa. Non me l’aspettavo: faticosamente, nell’ultimo anno, avevo accettato che, se non fosse accaduto naturalmente, senza acrobazie mediche, senza programmazione alcuna, avrei rinunciato alla possibilità di avere un bambino. Ed anche questa è una scelta del tutto soggettiva e in cui -lo specifico perché in molti me l’hanno chiesto – non c’entra la religione, quanto la spiritualità. È stato un percorso faticoso, doloroso, sicuramente aggravato dai tanti commenti inopportuni delle tante donne che, solo perché sono state investite al ruolo di “mamma” da Madre Natura, sentono di poterti dare lezioni e pensano che tu non possa in alcun modo capire cosa significhi essere mamma finché 1)non sarai restata incinta e avrai partorito 2)avrai cresciuto/educato -ma sarebbe bello capire come– il tuo bambino. Ma per me essere “mamma” è indipendente da questi due gradini: essere o non essere mamma è prima di tutto un modo di porsi verso se stesse e verso il mondo. È un percorso spirituale prima ancora di essere un percorso fattuale. Ci sono mamme molto più mamme di donne che hanno tre o quattro figli. Ricordo nuovamente il bel lavoro di Cecilia Lattari, #mammaononmamma, in cui sono raccolte le testimonianze di tante donne, alcune già mamme, altre che non vogliono esserlo, altre che avrebbero voluto esserlo ma non ci sono riuscite. Alcune testimonianze sono rabbiose e al contempo struggenti. Riporto un estratto di una di quelle che più mi ha colpito: “…se non sei madre pare che tu non capisca mai un accidente di niente, che non sai cos’è il sacrificio e la sofferenza (ma allora mi chiedo: cosa li fate a fare ‘sti figli se sono solo sacrificio e sofferenza?). E soprattutto, se non sei madre, automaticamente non capisci niente di bambini (pure se ci lavori da 10 anni). Ah, a proposito, gli altri sono anche quei genitori di bambini che hai consegna tutti i santi i giorni e che a volte si permettono di insinuare, più o meno velatamente, che non sei una brava insegnante perché non sei anche mamma…”. Se volete ricevere il pdf gratuito di #mammaononmamma potete scrivere a Cecilia: cecilia.lattari@gmail.com.
Sorpresa. Gioia immensa. Paura. Nei primi tre mesi ero terrorizzata all’idea di poter perdere il bambino. A volte mi svegliavo all’alba con il batticuore. Davvero era successo a me? Davvero avevo diritto a tanta gioia? Poi ci sono stati gli esami e, conseguentemente, altra paura per gli esiti e per il timore che qualcosa andasse storto. Ho seguito l’inter tradizionale -scelta molto ragionata e di nuovo molto soggettiva, dopo anni passati ad ascoltare silenziosamente e senza giudizio i percorsi di tantissime donne- e di nuovo ho dovuto scontrarmi con le posizioni di chi ci tiene a farti sapere che certi controlli non li avrebbe fatti mai perché mettono a rischio il bambino. Ho capito che ci sono persone che possono pure volerti bene, ma hanno continuamente bisogno di sentirsi protagoniste nella relazione, e non riescono mai a mettersi da parte e rispettare il tuo turno per parlare. Ho trovato la forza di chiudere rapporti in cui mi sentivo continuamente giudicata, in cui non mi sentivo libera, in cui c’erano argomenti che non potevano essere affrontati e venivano aprioristicamente censurati. Durante il primo trimestre ho sofferto incredibilmente il caldo -non ho mai sofferto il caldo ed ho sempre aspettato con ansia l’arrivo dell’estate-. La mamma di Nader era in ospedale, questa volta pensavo non ce l’avrebbe fatta… ma con la fine d’agosto e con l’abbassarsi delle temperature, tutto è tornato più o meno a posto. Ho visto il mio corpo dilatarsi e sapevo che era una cosa naturale, che sarebbe accaduta, ma ho sofferto molto per questo, più di quel che credevo. Tanta fatica, tanta ansia, tanto sudore, tanto sonno che non poteva mai essere realmente appagato. E poi, un pomeriggio, nella Valli di Comacchio, abbiamo scoperto che quel seme era una Lei: Neve.
Nel secondo trimestre, da settembre a novembre, siamo stati sereni. Mi sentivo meglio fisicamente, meno stanca, e avvertivo la presenza di Neve. È stato bellissimo vivere con lei il mio lavoro: mi ha dato energia e sicurezza; mi ha fatto sentire in uno “stato di grazia” mai avvertito prima. Ho rimodernato Burattinificio, tappezzando il soffitto di poster cinematografici e ricoprendo le sue pareti di rampicanti. Ho scritto due nuovi spettacoli: “Anar e Golnar”e “La bimba tigre”. Il corpo ha continuato a dilatarsi, i vestiti a stringersi e io ho dovuto lavorare molto su me stessa per riuscire ad accettarlo. Una fame senza confini, una fame implacabile. Poi, a dicembre, mi sono ammalata. Sono restata malata per quasi venti giorni. Non riuscivo a dormire per quanto stavo male: ho passato sette giorni di insonnia forzata e in quel periodo ho guardato, in uno stato di trance, la serie tedesca “Dark”, su Netflix. Ma, a parte questa parentesi, durante la gravidanza ho sempre preferito leggere piuttosto che vedere film. Ho ripreso in mano i libri di Stephen King, scrittore da me amatissimo nella pre-adolescenza e sto finendo “Le notti di Salem”. Ho ascoltato tanto gli audio libri di Radio3, come sempre: “Anna Karenina”, “Il fu Mattia Pascal”.
Ed eccoci qua. Gennaio. Attesa. Io sistemo la camera della bimba e mi sento come Nunziatella quando sta per partorire ne “L’Isola di Arturo”: un fiore prosciugato, quasi secco… tutto il nutrimento, tutta la vita, sono concentrati nel mio grembo. Metto a tacere le voci di fondo che ci tengono a farmi sapere che dopo sarà anche peggio: ancor più prosciugata, ancor più stanca. Care voci: sarò solo io, così come voi siete state voi e della vita degli altri, alla fine, nessuno sa nulla. Cosa sarà non riesco ad immaginarmelo ma il desiderio più grande, ora, è solo quello di prenderla fra le braccia e baciarla. Lei, così vicina, ma anche così lontana. Lei, che ancora non posso vedere, che non posso toccare. La mia bimba tutta chiusa in un forno, in una pianta di rosmarino e che, forse, uscirà con il sorgere della Nona Luna.