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La solitudine delle madri

Un post intimo, dopo un anno di articoli in cui ho parlato di scuola, di fiabe, di paure.

Quando non ero mamma avevo solo percepito la solitudine di cui parlano tutte le mamme. 

È una solitudine particolare, a sé stante, questo l’avevo capito. 

È la solitudine di un adulto che condivide tutto il suo tempo con una persona che ancora non parla e di cui si devono interpretare i bisogni: ha fame, ha sonno, ha freddo, ha caldo, ha voglia di coccole. La presenza di un terzo componente diventa allora indispensabile: il babbo, la nonna, un’amica o un amico. Qualcuno con cui poter condividere l’enorme responsabilità di quell’esserino alla soglia della vita. 

Ho avuto il privilegio  di  trascorrere tantissimo tempo con mia figlia: non ero costretta a tornare in un ufficio e a lasciarla in un asilo o con una dada. Questo privilegio ha ovviamente comportato un importante impegno: le continue richieste di un figlio mettono in contatto con la propria interiorità recondita, spesso rimossa. Il proprio perturbante.

Non ci sono pause all’albore di un rapporto madre-figlio. 

È umano aver voglia di chiudersi in sé: non dover dare, poter pensare solo al proprio benessere. Ed è proprio mentre la stanchezza si fa più incalzante che quel particolare senso di solitudine fa capolino. Una solitudine che può mutare in rabbia e risentimento.

Le madri cattive sono personaggi immancabili nelle fiabe – nelle versioni moderne delle fiabe vengono rinonimate “matrigne”, ma nella forma originale della fiaba erano madri che da buone diventavano cattive-. Della mamma cattiva quasi nessuno vuol sentir parlare. È un un tabù. Perché nell’ immaginario collettivo la madre è colei che si sacrifica ed è felice di sacrificarsi, proprio come lo sarebbe una divinità, una martire o la Madonna. Ma noi donne, noi madri umane, sappiamo che  quella “madre cattiva” alberga in ognuna di noi. Un continuo lavoro di auto-analisi diventa allora indispensabile per imparare a conoscere quella madre cattiva e dare il giusto spazio alle sue istanze, senza però lasciare che prendano il sopravvento. 

Forse il segreto è imparare a lasciare che le cose scorrano.

Abbandonarsi in un gioco, in un sorriso, anche se le cose non stanno andando come avevamo previsto.

Abbandonare il controllo, che è ciò che ci impedisce di vivere il presente.

Adesso Neve corre, gioca, sta conquistando, giorno dopo giorno, tante piccole autonomie e tra poco comincerà la scuola. Ed io, dopo un anno e mezzo, ritroverò degli spazi miei, al di là della mia vita da mamma. A volte le mamme che incontro mi dicono: “era così bello quando era piccino e stava buono in carrozzina!”. Ed io penso che invece sono tanto felice che Neve stia imparando a parlare e a muoversi nel mondo. Ho voglia di conoscerla, di farmi conoscere, di crescere accanto a lei, con lei.

Illustrazioni di Anna ed Elena Balbusso tratte da la fiaba “I Cigni Selvatici”