I BAMBINI E LA PAURA: I RACCONTI PROIBITI CHE GLI ADULTI TEMONO

Si viene al mondo. Le prime sensazioni sono di freddo, di fame, di vulnerabilità. Tra le prime emozioni invece c’è la paura. Da quel momento la crescita è accompagnata da paure quotidiane che un bambino potrà imparare a gestire, a patto che abbia a fianco adulti che si prendono cura di lui. Per questo motivo sono necessarie le routine: così il bimbo potrà percepire un controllo di quanto lo circonda e imparerà a gestire l’ansia che prova se non vengono immediatamente soddisfatti i suoi bisogni. La paura nasce e cresce con noi, torna ogni volta che ci sentiamo minacciati. Col tempo le paure diventano sofisticate, personalizzate. Durante la giornata il bambino prova molte emozioni, ma non è ancora maturo emotivamente, non è in grado di gestirle. Le emozioni lo assalgono e di fronte a quell’assalto il bimbo reagisce come può: a volte piangendo, altre volte adirandosi, altre ancora disubbidendo. Nel momento in cui ascolta una fiaba, se la fiaba lo coinvolge, al bambino può capitare di provare emozioni che già aveva provato nella vita quotidiana, ma a cui non aveva saputo dare un nome.

In Biancaneve una madre, non accettando di essere meno bella della figlia, decide di ucciderla. Viene messo in scena il tabù sociale per eccellenza: l’infanticidio materno. È socialmente inaccettabile che una donna, per quanto predisposta fisicamente alla maternità, possa non avere alcun istinto di accudimento. Nel momento in cui si diventa madri si vuol credere che scatti un meccanismo, che si sarà in grado di fare a meno di ogni cosa per il bene della prole. La continua rinuncia a sé può portare invece -anche soltanto a livello inconscio- a provare ostilità verso il proprio bambino. Queste sensazioni sono percepite, perché vi è una comunicazione non verbale fra madre e figlio. L’ostilità da parte della madre è una delle tante emozioni alle quali il bambino non sa dare un nome. Quando ascoltano Biancaneve i bimbi vedono messo in scena l’odio di una madre verso una figlia bella e buona: può capitare che riemerga la paura -già provata- che la mamma non li ami e desideri sbarazzarsi di loro. Alcuni bambini dopo aver ascoltato una fiaba come questa esplicitano il timore dell’abbandono svegliandosi ad esempio la notte o piangendo. Alcuni adulti, di fronte a queste manifestazioni, si spaventano e pensano che sia stata la fiaba a mettere in testa al bimbo strani pensieri. Molti si rifiutano di trattare la paura: Era soltanto una fiaba, non esistono le mamme che non vogliono bene ai loro bambini, che vogliono abbandonarli. I genitori non se ne rendono conto ma, così facendo, negano le sensazioni del figlio e la sua naturale volontà di conoscere il proprio mondo emotivo. La rimozione amplificherà l’effetto della paura. La fiaba mette in scena il rimosso culturale ed emotivo.

Scrive Milena Bernardi nel libro “Infanzia e metafore letterarie”: “… nel rapporto che i grandi intavolano con le fiabe e con la letteratura per l’infanzia si intravede spesso la dimensione del doppio, data dalla sovrapposizione di due fasi della vita che d’improvviso, a causa delle “storie per bambini”, ricominciano a frequentarsi, forse a dialogare, oppure ad insistere nel volersi ignorare. Ne deriva, a volte, una situazione di confusione tra ruoli adulti e rimembranze infantili che pone i cosiddetti grandi nell’incontro con certe storie. I diretti interessati, tuttavia, adducono altre ragioni per motivare il proprio imbarazzo riguardo a queste fiabe: sostengono di essere preoccupati per le angosce, le ansie, le paure che quelle storie potrebbero provocare ai bambini, e sembrano tenere in poco conto il gradimento dimostrato, invece, dai più piccoli…”. Un adulto che ha tenuto nascosto il proprio perturbante nell’inconscio per anni ha ben poca voglia di ricontattarlo tramite una fiaba: non è in grado di gestire la propria paura, figuriamoci quella del bambino. Nei giorni scorsi mi ha scritto Paolo Sette, un mio collega burattinaio (https://trepalchi.it/paolo-sette), e mi ha raccontato la sua esperienza all’interno della scuola. Riporto le sue parole, acute e che in parte condivido: “…il pubblico della scuola è un pubblico particolare. Innanzitutto non sono adulti e poi non hanno scelto liberamente di assistere allo spettacolo. Quindi nei loro confronti devo essere più cauto, perché non sono più solo un teatrante che si esibisce di fronte ad un pubblico che sceglie liberamente e consapevolmente di assistere alla mia esibizione. Ma sono anche “educatore”. E se è vero che i bambini hanno bisogno delle fiabe e di imparare a elaborare la paura e il lutto, lo devono fare coi loro tempi. E purtroppo uno spettacolo a scuola non necessariamente rispetta i loro tempi…”.

Quali sono, dunque, i tempi dei bambini? Ogni piccolo ha un orologio interiore che segna la crescita. Quell’orologio è differente da bambino a bambino, alcuni acquistano certe competenze per primi -quelle linguistiche ad esempio- altri invece imparano prima a camminare e impiegano più tempo per parlare. Allo stesso modo ci sono delle emozioni che certi bimbi elaboreranno in ritardo rispetto ad altri. Ma ciò non significa che non si possa trattare di una emozione fino a quando non è stata elaborata. Il compito degli educatori è proprio questo: far conoscere ai piccoli le loro emozioni. E come si può fare questo se non parlandone con loro e proponendo storie che facciano emergere ciò che è celato nel cuore, ma ancora non ha nome? Paolo Sette ha ragione: il pubblico della scuola (e in generale il pubblico dei bambini) è particolare. Non sono i bambini a scegliere a quale spettacolo assistere, ma gli adulti e proprio per questo che la scuola deve scegliere una proposta di qualità. Scrive ancora Sette: “…un contesto così vincolante come la scuola ci obbliga a modificare il nostro modo di presentare il nostro lavoro. Secondo me è inevitabile. E non ci vedo nulla di offensivo. Basta mettersi d’accordo su cosa significa “modificare”. Come te, non accetterei di modificare lo spettacolo in sé. Ma sosterrei invece, e anzi l’auspicherei, che gli insegnanti e gli educatori preparino i bambini al tema e al particolare linguaggio presenti nello spettacolo. Oppure preferisco io non andare a fare spettacolo in quella scuola. Ciò non significa che a scuola non si debba affrontare questioni spinose o alte, anzi penso proprio che le si debba affrontare, ma con l’aiuto di chi a scuola ci lavora. Sennò non ha nessun senso…”. 

L’episodio che ho vissuto e di cui tanto si è tanto parlato nega ciò che auspica, nel suo intervento, Paolo Sette. Ho lavorato in tante scuole e ovviamente soltanto in alcuni casi le cose sono andate male. Nelle scuole dove non ho trovato apertura e collaborazione da parte degli insegnanti ho notato alcuni tratti ricorrenti: Anzitutto lo spettacolo non viene scelto in base alla professionalità dell’artista o per le vicende messe in scena, ma in base a quanto é conveniente il cachet, perché sono i genitori che finanziano il progetto. In secondo luogo le insegnanti chiedono uno spettacolo con una tematica ben precisa: il Natale, la Pasqua, il razzismo, la pace. Le fiabe, marginalmente, possono toccare tutti questi temi, ma, poiché hanno trame complesse, non trattano schematicamente un determinato argomento. Questa caratteristica, che dovrebbe invece elevare le fiabe rispetto alle comuni narrazioni, è vista come un deterrente. Penso ad esempio che il mio spettacolo “La fiaba della Regina Neve” tratti il tema del Natale in maniera molto più viscerale di tante storie in cui sono presenti Babbo Natale, i regali, l’albero addobbato. È una fiaba profondamente spirituale, tutta l’opera di Andersen è d’altronde pervasa di questa spiritualità. Allora perché ad Andersen, spesso, si preferisce Babbo Natale? Temo che la scelta ricada sulla trama lapalissiana perché, in questo modo, gli insegnanti sono certi di non ricevere contestazioni da parte dei genitori. A questo proposito Paolo Sette scrive: “…avendo uno spettacolo che ha la parola “morte” nel titolo, spesso mi sento rispondere, sia in ambito scolastico che in altri ambiti “istituzionali”, che la proposta risulta troppo lugubre, così da essere scartata a priori”. Lo spettacolo di Paolo Sette si ispira liberamente all’albo illustrato di Wolf Erlbruch “L’Anatra, la Morte e il tulipano”, in cui la morte viene presentata con estrema dolcezza, ha un teschio al posto del volto, ma è vestita come una nonnina e segue un’anatra negli ultimi giorni della sua vita. È un albo molto delicato quello di Erlbruch e penso lo sia, anche se non ho ancora avuto modo di vederlo, anche lo spettacolo di Sette: si può non essere lugubri, anche parlando di morte. Francesca Testoni, responsabile di AGEOP (associazione genitori ematologia oncologia pediatrica) scrive: “…Quanti insegnanti e quanti genitori si dovrebbero rileggere Janus Korczac e rendersi conto che per proteggere i bambini da “piccole morti quotidiane”, gli si impedisce di vivere, di fare il loro “mestiere” di crescere e imparare la vita attraverso l’esperienza. Per i genitori la più grande forma di rispetto verso i figli è riconoscere la loro autonomia, considerarli come persone “altre da noi” e renderli indipendenti”. Lo stesso Janusz Korczak sostiene “L’indipendenza mi pare significhi possesso: io dispongo della mia persona. Nella libertà esiste un elemento volitivo e quindi di azione che sgorga dalla volontà. (… )se ubbidiente, passivo, fiducioso, si sottometterà alla richiesta di evitare tutte le esperienze, di rinunciare a prove e tentativi, …… che farà quando nel suo intimo sentirà qualcosa che ferisce, che brucia, morde.” Sempre Testoni: “Ancora di più dobbiamo vigilare quando il bambino é malato e le nostre apprensioni ci inducono ad avvolgerlo e proteggerlo ancora di più, quando temiamo per la sua vita e rischiamo di annullarla a causa delle nostre paure”.  

Dopo aver presentato alla scuola al mio repertorio, chiedo sempre alle insegnanti quali argomenti desiderino sviluppare con i loro bambini; le aiuto poi a scegliere la fiaba più idonea alle loro esigenze didattiche. A quel punto le insegnanti, su mio consiglio, dovrebbero fare un lavoro pre e post spettacolo. Raccontare la fiaba, parlarne con i bambini, presentargliela in più forme (albi illustrati, narrazione a voce, gioco interattivo). Questa è la cooperazione che auspico con le scuole e con le insegnanti e, come dice Paolo Sette, “è una preparazione dei bambini al tema e al particolare linguaggio presenti nello spettacolo”. Purtroppo non sempre le cose vanno così. In molti casi, infatti, accade che i bambini assistono alla messa in scena della fiaba, vengono scattate due foto e tutto finisce lì. Ed è per questo motivo che lo spettacolo deve essere più inoffensivo e ludico possibile. Non deve lasciare strascichi, domande, irrisolti. Quindi, niente specchi demoniaci e niente diavoli. Ma chi parlerà con i nostri bambini delle questioni esistenziali DAVVERO IMPORTANTI, se nessuno vuole farlo? Scrive Emanuela Dozza, pedagogista (https://www.emanueladozza.it): “…la maggioranza degli Insegnanti si trincera sempre più dietro un modo politicamente corretto di adempiere alla propria funzione per ingraziarsi il riconoscimento dei Genitori e poco importa se per il bene dei Giovani servirebbe anche avere la forza di andare controcorrente. Per far questo però sarebbe necessaria la qualità del proprio operato e grande passione. E questo oggi si riscontra in misura minore di quanto sembra guardando in maniera superficiale alla Scuola. La Scuola si arrende per infinite ragioni ad una nuova Famiglia che a sua volta crede che i propri Figli non debbano mai cadere, sbagliare, avere paura, essere frustrati o annoiati…”. 

Perché la scuola ha così paura del giudizio delle famiglie? Me lo sono chiesta tante volte, vorrei una risposta sincera da parte degli insegnanti a cui, volentieri, cedo la parola.

Le immagini che accompagnano questo articolo sono le belle illustrazioni di Fabian Negrin che accompagnano il testo di Jacob e Wilhelm GRIMM, a cura di Jack Zipes. Traduzione di Camilla Miglio, “Principessa Pel di Topo e altre 41 fiabe da scoprire”, Donzelli Editore Roma, 2012