Tutti i grandi sono stati bambini, una volta
Tanti anni fa, durante un laboratorio in un aula di via Zamboni, un pedagogista di una certa età ci raccontò che, durante una riunione con un gruppo di mamme affannate, chi perché il suo bimbo ancora non usava il vasino, chi perché si svegliava la notte, aveva d’un tratto detto: “ma lo sapete che i vostri bimbi, un giorno moriranno?”. Fra le mamme era calato un silenzio imbarazzato, intervallato da qualche risatina nervosa, lo stesso che per altro calò in quel momento nell’aula di via Zamboni. In quell’attimo sentii che un mio stato interiore profondo era stato finalmente accolto in quelle aule universitarie.
Un paio di settimane fa ho accompagnato Nader ad un convegno a Ferrara, “La letteratura come bene comune“. Durante il suo discorso conclusivo Nader ha parlato di storia e di guerra. Nell’ultimo conflitto mondiale sono stati sconfitti i “cattivi”, i nazisti. I soldati tedeschi, i soldati giapponesi, sterminati, piegati, distrutti. Dietro quella carne cattiva, quella carne che è stata annientata, c’è un’altra storia che non viene mai raccontata: quella storia comincia in una pancia, in cui lentamente si creano legamenti, occhi, bocca, manine. Di tutto questo ne parla anche la poetessa polacca Wisława Szymborska, nella poesia “La prima fotografia di Hitler”:
E chi è questo pupo in vestina?
Ma è Adolfino, il figlio del signor Hitler!
diventerà forse un dottore in legge
o un tenore dell’Opera di Vienna?
Di chi è questa manina, di chi, e gli occhietti, il nasino?
Di chi il pancino pieno di latte, ancora non si sa:
d’un tipografo, d’un mercante, d’un prete?
Dove andranno queste buffe gambette, dove?
Al giardinetto, a scuola, in ufficio, alle nozze,
magari con la figlia del borgomastro?
Il futuro è spalancato davanti ad ogni bambino. Di lui ancora non sappiamo nulla, è un estraneo. Ma quanta fatica, quanta fatica per portare avanti quel progetto di vita: per farlo sbocciare, nella pancia, per farlo uscire da quella pancia; e poi il latte, le carezze, le notti insonni, la scuola, le malattie… Un figlio è questo e tanto altro. La celebre frase del “Piccolo Principe, “…tutti i grandi sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano…” assume un’altra profondità ancora, se analizzata attraverso questa lente di guerra, di vincitori, di vinti e, naturalmente, di morte. Quell’adulto che odiamo, in un altro tempo, in un altro luogo, avrebbe potuto essere stretto a noi, accolto fra le nostre braccia, coccolato, vezzeggiato. Non è assurdo e meraviglioso questo pensiero? Ma, come dice Wisława Szymborska nell’ultimo verso della sua poesia: “…l’insegnante di storia allenta il colletto e sbadiglia sui quaderni…”; coloro che studiano la storia rimangono indifferenti ed annoiati nei confronti della materia prima che compone la storia stessa e anche noi rimaniamo spesso indifferenti di fronte a quel processo così complesso, così doloroso, ma così naturale.
Per questo la frase di quel pedagogista mi riscaldò il cuore e mi fece sentire rassicurata: la vita, con tutti i suoi affanni, con tutti i suoi dolori, ci insegna che tutto finisce, prima o poi. I bimbi crescono, diventano adulti, poi anziani e infine muoiono. La frase di quel pedagogista era perciò un invito a non affannarsi troppo di fronte a quei piccoli problemi quotidiani. Il perfezionismo e l’ansia di controllo rovina la vita a noi adulti e la rovina anche ai nostri bambini, rendendoci angosciosi questi attimi che ci sembrano eterni, ma che non lo sono affatto. Per questo il pensiero della Morte non dovrebbe spaventarci, ma rassicurarci, perché questa l’angoscia per il futuro, la maggior parte delle volte, è pura illusione, una creazione della nostra mente con la quale pensiamo di proteggerci, mentre ci condanna all’infelicità. I bambini vivono nel presente, non hanno ancora sviluppato, come noi adulti, l’ansia per il futuro. Quando corrono, gioiscono, ridono, nel loro volto c’è solo il “qui ed ora”. Questo è il dono che offrono i bambini e che io, ma spero anche voi, cerco di cogliere ogni giorno: ripenso ad Alessandro che aveva paura di scendere dallo scivolo, e quando ce l’ha fatta è esploso di gioia, mi ha buttato le braccia al collo e mi ha dato un grande bacio. Allora penso che la vita è meravigliosa, anche perché finisce, e non ho più paura.
Tutte le immagini di questo articolo sono tratte da un meraviglioso albo, “My Sad Book”, di Michael Rosen illustrato da Quentin Blake: in questo libro si parla dell’esperienza del dolore dopo la morte di una persona amata; nel sito Brain Pickings ne trovate una bella recensione in cui una frase, fra tutte, credo sia centrale: “…what emerges is a breathtaking bow before the central paradox of the human experience — the awareness that the heart’s enormous capacity for love is matched with an equal capacity for pain, and yet we love anyway and somehow find fragments of that love even amid the ruins of loss…”.