Scarpette rosse e sporche

Illustrazione di Nancy Ekholm Burkert

Nell’ultimo mese i bimbi di BurattiNido sono stati a turno colpiti da questa brutta forma virale che prende la gola ed io, di rito, sono stata contagiata. Dicono che a lavorare a stretto contatto con i bimbi si “facciano gli anticorpi” e io spero non sia una leggenda metropolitana. Nonostante la tosse e l’inevitabile indolenzimento fisico, che mi portano a cadere in un sonno profondo e senza sogni prima di mezzanotte, mi sento molto felice e “sognatrice fattiva” alla soglia di questa primavera. Quest’anno Burattinificio ha aperto ben poche volte il suo focolare per accogliere bambini e genitori ad ascoltare fiabe di fronte al Teatro Camino. Ma, come scrissi prima di Natale, ci sono momenti utili al processo creativo, fra cui il raccoglimento, la riflessione e la ricerca. Questo silenzio è solo una pausa, durante la quale sto lavorando alacremente all’interno dei miei laboratori: disegnando, costruendo, progettando, cucendo. Naturalmente c’è anche il lavoro con i miei bambini, che è un lavoro di osservazione e di scoperta attraverso le pratiche quotidiane. Adesso ho anche cominciato un laboratorio di burattini presso una prima elementare alle Scuola Primaria Longhena. Lavorare con bambini di età così miste (dai 2 anni ai 7 anni) mi porta ad elaborare un metodo, in campo pedagogico ma anche in campo teatrale. Cresce la mia voglia di raccontare storie perché crescono i contatti con i bambini e cresce quindi la voglia di offrire loro doni fantastici. Un’artista, spesso, rischia di vivere in una “torre d’avorio”, in cui finisce per fare spettacolo solo per se stesso e per portare avanti una propria ideologia, facendo così poco i conti con coloro che realmente fruiscono dello spettacolo: i bambini.

Illustrazione di Nancy Ekholm Burkert

Ultimamente ho visto diversi spettacoli, più di teatro ragazzi che di teatro di figura. Alimentare un processo creativo significa anche saper ascoltare e guardare gli altri, lo insegno ai miei bambini e lo insegno anche a me stessa, ogni giorno. Questi spettacoli erano di buona qualità ma, secondo me, mancavano di un ingrediente che ritengo essenziale nel teatro per bambini: la sporcizia. Erano spettacoli troppo puliti, che seguivano un rigido copione, fatto di pause, battute a memoria, musica, sospiri, scenografie in linea con molti locali “family friendly” nati negli ultimi anni, in cui vengono scelti pochi elementi, dalle linee pulite, e in cui predomina il bianco, i colori pastello e la “grafica hipster”. Un’estetica adulta, che piace a noi adulti e che è fatta per noi adulti. I bambini hanno bisogno di sporco, non solo di ordine. L’imprevisto, l’interazione, la deviazione sono fondamentali nel percorso di crescita dei bambini ma anche nel momento di un incontro teatrale con loro. Vedo molti artisti formati e talentuosi in ambito teatrale, ma che sanno ben poco dei bambini: li guardano come fossero alieni e vivono quell’incontro in maniera rigida, senza lasciare alcuno spazio ai loro spettatori perché la scena è tutta piena di loro (e del loro ego). Uno spettacolo per bambini dovrebbe avere anche l’impronta di un happening e avere la capacità di non essere mai sempre uguale a se stesso. Altrimenti non è uno spettacolo “per bambini”, è uno spettacolo per compiacere noi stessi e per compiacere gli adulti che ci guardano e che amano gli spazi vuoti, le linee essenziali e il controllo.

Illustrazione di Nancy Ekholm Burkert

Alla fine di febbraio c’è stata la penultima conferenza presso Burattinificio, curata dalla Dr.ssa Caterina Mirella Donato (qui la sua pagina facebook: Genitori che impresa) , che ha parlato di un tema a me molto caro e fondante del mio metodo pedagogico: l’autonomia come supporto all’autostima. Maria Montessori scrive: “….non abbiamo ancora compreso nel suo vero senso l’alto concetto dell’indipendenza poiché le condizioni sociali in cui viviamo sono ancora servili. In un periodo di civiltà in cui esistono i servi, le condizioni sociali non possono alimentare l’idea dell’indipendenza, proprio come nei giorni della schiavitù l’idea della libertà era oscura. I nostri servi non sono i nostri dipendenti; siamo noi piuttosto i loro dipendenti. (…) Noi crediamo molto spesso di essere indipendenti, perché nessuno ci comanda, anzi noi comandiamo gli altri; ma il signore che ha bisogno di chiamare il servitore è un dipendente della propria inferiorità. Il paralitico che non può levarsi le scarpe per un fatto patologico e il principe che non può levarsele per un fatto sociale, sono nella medesima condizione… chi è servito è leso nella sua indipendenzaUn’azione pedagogica efficace sui teneri bambini deve essere quella di aiutarli ad avanzare sulla via dell’indipendenza. Aiutarli ad imparare a camminare senza aiuto, a correre, a salire e scendere le scale, a rialzare oggetti caduti, a vestirsi e a spogliarsi, a lavarsi, a parlare per esprimere chiaramente i propri bisogni, a cercare con tentativi di giungere al soddisfacimento dei prorpi desideri – ecco l’educazione all’indipendenza”. 

La Dr.ssa Donato ha portato l’accento su un dato che ritengo molto importante e che io stessa ho avuto modo di notare lavorando con i bambini: oggi numerosi bambini hanno competenze culturali molto avanzate. Il bambini contemporaneo è profondamente adultizzato: conosce termini complicati (che fanno sorridere gli adulti), vede numerosi film, spettacoli teatrali, legge -o gli vengono letti- tanti libri; viene portato alle mostre e ai laboratori “creativi”. Il bambino contemporaneo è un bambino mondano e cosmopolita. Ma poi, quando arriva la sera, e si torna a casa, ecco che il bimbo vive a livello fisico delle regressioni e vuole dormire nel letto con la mamma e il papà, vuole essere spogliato e che gli sia infilato il pigiama, chiede di essere lavato e portato in bagno. Mancano insomma le autonomie essenziali da un punto di vista fisico. Quel bambino che conosce parole complesse e frequenta il laboratorio di attività grafiche/pittoriche su Van Gogh, non è poi in grado di vestirsi o lavarsi le mani. Spesso sono i genitori stessi a promuovere la dipendenza, imboccandolo, vestendolo o, nel caso della mamma, prolungando il periodo dell’allattamento, incoraggiando così il proseguimento ad libitum di un legame di dipendenza poiché “è l’atto stesso della suzione che mette in moto parti del corpo che rimandano ad una relazione fusionale”. Vedere il proprio bimbo autonomo può spaventare un genitore perché implica una separazione, un “lasciare andare”. Nella fiaba di “Piuma d’oro” di Luigi Capuana, quella attraverso cui ho introdotto il ciclo di conferenze di “Grandi Speranze” (riascoltabile QUI), l’atto della separazione genitori/figlia è messo in scena: la bimba “Piuma d’oro”, che pesa meno di una piuma -metafora della totale assenza di responsabilità- e che viene tenuta letteralmente al guinzaglio dai genitori -schiavizzati dalla figlia, che ordina loro di passare la giornata a “soffiarla al vento”- chiede di essere liberata da quel guinzaglio e di essere lasciata libera nel mondo. Libera di sperimentare, di ferirsi, di essere, finalmente, autonoma.

Illustrazione di Nancy Ekholm Burkert

Mi è venuta in mente una fiaba raccontata dalla psicanalista Clarissa Pinkola Estes nel libro “Donne che corrono coi lupi”. La fiaba si chiama “Scarpette Rosse” ed una versione differente rispetto a quella scritta da Andersen. Le “scarpette rosse” della fiaba della Estes sono costruite dalla bimba protagonista con materiali di scarto, mentre nella versione di Andersen le scarpette erano state donate dalla mamma morta. Proprio a partire da questo dato, le due fiabe assumono significati completamente diversi. La bimba è sola, senza famiglia e quelle scarpette rosse, che ha costruito con i propri mezzi, con la propria creatività, sono quanto di più prezioso abbia al mondo. Sono imperfette ma sono fatte da lei, costruite grazie all’autonomia faticosamente conquistata. Un giorno la bimba incontra una ricca donna anziana che la adotta. La donna, come prima cosa, butta via le scarpette rosse mal ridotte. Il danno che consegue questo atto è incalcolabile. Allo stesso modo gli atti che compiuti dai bambini che stanno imparando sono imperfetti, imprecisi, rozzi: correggere questi atti, se non addirittura reprimerli, significare bloccare un percorso di autonomia che si sta compiendo. Solo provando e sbagliando il bambino impara. L’adulto che veste il bambino, che lo imbocca o che, come ho visto in alcuni laboratori, si spazientisce perché il bambino non sa tagliare, usare il nastro adesivo o colorare dentro i contorni, e si mette perciò a fare le cose al suo posto, trasmette al bambino il seguente messaggio: “tu non sei capace, lo faccio io perché tu non puoi riuscirci da solo, tu hai bisogno di me e del mio aiuto per poter andare avanti”. Nelle fiabe i bambini vengono spesso lasciati soli nel loro percorso di autonomia. Nella vita reale è invece necessario, come sappiamo, supportare quel processo d’autonomia. Ma allora le fiabe sono sbagliate, sono diseducative? Ovviamente no. Le fiabe seguono un loro percorso indipendente, utilizzando il linguaggio del sogno e della libertà creativa.

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