Minghina, lotto anch’io!
Mia nonna morì di tumore allo stomaco nell’autunno del 1990. Avevo appena compiuto 11 anni, primo anno di Scuole Medie. Mia nonna si chiamava Clara, aveva 67 anni quando se ne andò da questa Terra e ci sono tante cose che oggi vorrei chiederle. Mi raccontava che da bambina viveva in una casa bellissima e che giocava molto con i suoi due fratelli, Rossana e Carlo. La mamma di mia nonna era soprannominata “la Generalessa” e doveva questo nomignolo, ovviamente, alla sua severità educativa che, di sovente, esercitava attraverso l’utilizzo del battipanni. Un giorno domandai a mia nonna: “che fine ha fatto la tua casa d’infanzia?”. Lei scrollò le spalle e disse “l’abbiamo venduta tanto di quel tempo fa…chissà chi ci abita adesso”. Mi turbò la scostanza con la quale accettava questa perdita e pensai che io, invece, sarei sempre tornata nella casa dei miei nonni, la villa di Medicina, un paese in provincia di Bologna.
Quella villa non era solo una casa. Quella villa era i miei nonni, era la mia famiglia, era le nostre radici. Una villa labirintica, con giardini pensili, nascosti qua e là, la tavernetta con il locale della caldaia, l’angolo dei liquori, l’albicocco sul quale, arrampicandosi, si accedeva alla Casa del Popolo. Mio nonno vendette quella casa poco dopo che mia nonna morì. Con la morte di mia nonna finì la mia infanzia.
Purtroppo quello che è successo a me, in tenera età, e a mia nonna, che non era nemmeno troppo anziana con i suoi 67 anni, succede a milioni di persone in Italia, in qualsiasi fase della vita: ci si ammala o vediamo i nostri cari ammalarsi. E’ successo anche a mio marito, quando aveva 20 anni, e ha seguito il velocissimo decorso del suo papà, portato via da un tumore nell’arco di un solo mese; è successo a mia mamma e mia zia che hanno perso la loro mamma quando avevano rispettivamente 18 e 13 anni. Nel 2009 ho cominciato dunque a cooperare con AGEOP, associazione che, da oltre trent’anni, è impegnata nella lotta contro i tumori e le leucemie nell’infanzia. Se è terribile ammalarsi di tumore quando si è adulti, immaginate cosa possa essere contrarre questa malattia nell’infanzia: terribile per il piccolo paziente, terribile per la sua famiglia. Eppure, anche in situazioni così drammatiche, c’è chi riesce a portare un messaggio di speranza: è il caso di Francesca Testoni, responsabile assistenza AGEOP, di cui trovate l’intervista integrale a questa pagina. Nicolò, il bimbo di Francesca, aveva sette anni quando è morto per un rabdomiosarcoma al diaframma. “È possibile la leggerezza quando tuo figlio si ammala di cancro e, nonostante due anni di chemioterapie, radioterapie e tre autotrapianti, muore? Ebbene, assurdamente e follemente, mi sento di rispondere “Sì”; con tutto il fiato che ho in gola.” scrive Francesca. “Se racconto la nostra esperienza non è per dimostrare che noi siamo stati più bravi, ma perché sono convinta che si possa pensare alla leggerezza come ad uno dei traguardi dell’alleanza terapeutica. Nonostante razionalmente sapessi che la percentuale di possibilità di sopravvivenza fosse qualcosa di astratto, così labile di fronte ad un rabdomiosarcoma al diaframma, il dover convincere Nicolò, suo padre e le sue sorelle che potevamo farcela, alla fine convinceva anche me. E così ridevamo di tutto, del “microbone” cattivo che dovevamo sconfiggere, dell’operazione alle tonsille scampata grazie alla chemio che le aveva fatte regredire… Così, quando vidi “La vita è bella” di Benigni, capii che quella era la strada giusta da percorrere: una visione surreale di ciò che ci stava accadendo e che rendesse inoffensivo quel microbone terribile. L’aiuto delle psicologhe del reparto è stato fondamentale per tutta la famiglia. La serenità della famiglia dava positività e forza a Nicolò, che sua volta ci rincuorava”.
Il mio incontro con Francesca Testoni non fu nel 2009, ad AGEOP, ma nel 1992. Sua figlia Martina era una mia compagna di scuola e per un breve periodo ci frequentammo, prima che il Liceo dividesse le nostre strade. Francesca era una giovane mamma, piena di energia. Io, che mi affacciavo all’adolescenza, per la prima volta nella mia giovane vita mi ero innamorata di una Rock Band: i Queen. Francesca aveva un cd dei Queen, e questa la rese da subito ai miei occhi una mamma simpatica, un adulto che capiva i gusti di noi ragazzi. Avemmo un veloce dialogo a seguito della mia scoperta di quel cd e durante quel dialogo mi disse: “Bisogna godere di quello che questa vita offre: che sia musica, cibo, amicizia o altro…”. In questo articolo ho ritrovato la leggerezza , la semplicità ma anche la potenza di quella frase che mi disse quando avevo solo 12 anni. La capacità di credere nella vita, qualsiasi cosa accada. La capacità di non annichilirsi, anche quando il reale ci ferisce e ci piega. La morte e la malattia sono il grande tabù della mia vita. Quando ripenso alla malattia e alla morte di mia nonna, mi rendo conto che indugio quasi sempre sui particolari più scabrosi, soffermandomi solo su ciò che ho perso e non su quanto mi abbia dato conoscere lei, Clara, anche se per pochi anni della mia vita. Credo di non essere sola in questo sentire. La maggior parte di noi non pensa quasi mai alla morte e alla malattia o, se lo fa, lo fa con terrore, con disperazione, con rabbia.
Dall’introduzione di Marco Venturino al libro di Frank Ostaseski “Saper accompagnare” :”… nella nostra cultura si tende a relegare la morte dietro a una porta chiusa; io spero quindi che nel percorso che faremo insieme potremo invitarla a uscire, e imparare a trattarla con la familiarità e la confidenza di un’amica di vecchia data. Dunque andare incontro alla morte per superare il dolore, perché scappare non serve. Ma andare incontro alla morte, occuparsi di quest’ultimo appuntamento che attende chi ci sta intorno ma, soprattutto, riguarda noi stessi, forse serve anche a qualcosa di più. (….) Le grandi tradizioni religiose e spirituali hanno sempre posto nel morire, nel mistero della morte, il fulcro dell’esistenza. Per esempio un intellettuale cristiano, padre François Varillon, vissuto in pieno Ventesimo secolo, così affrontava il problema della morte: “Anche il chicco di grano soffocato nella terra crede di stare morendo, mentre è in cammino verso la superba spiga che presto ondeggerà al vento. Non si può essere trasformati senza passare attraverso una morte .. .” La morte non solo è un passaggio obbligato, ma è la condizione che dà senso e pienezza alla nostra vita. (…) Quando consideriamo la morte vicina, a portata di mano, il nostro bisogno di gratificazione diventa meno ossessivo. Impariamo a prendere noi stessi e le nostre idee un po’ meno sul serio, e a lasciare perdere con più facilità. Ci apriamo di più alla generosità e all’amore, ci sentiamo più disposti alla gentilezza reciproca. Imparare a guardare la morte allontana dalla strada della disperazione e ci introduce nel sentiero della consapevolezza. Dall’accettazione della nostra condizione di uomini e della precarietà del nostro destino terreno sorge chiara la coscienza dell’importanza e del valore del nostro essere, in ogni istante della vita.”
Domenica 5 marzo ho partecipato alla terza edizione di #LOTTOANCHIO, manifestazione organizzata da AGEOP in Piazza Maggiore. Insieme a me c’erano tanti altri volontari: NaturGiocando, la Scuola di musica Beat Bit Music e gli immancabili operatori dell’AGEOP con i loro banchetti. Il grido #LOTTOANCHIO è un inno alla vita: lotto per vivere fino in fondo, con pienezza, con gioia, qualsiasi cosa accada. Lotto non solo per me e per la mia vita ma per la vita di tutti, perché siamo parte di un tutto: “….solidarietà, quindi, che non è “buon cuore”, non mera filantropia di chi ha bisogno di dare con gli altri per pacificare se stesso. Ma condivisione, quel fare “con gli altri” che deriva dalla convinzione che viviamo in un intreccio di vite e di destini, dove non sempre è dato scegliere ciò che sta sulla nostra strada e dove è importante guardare ad ogni aspetto del mondo che ci circonda, no al più doloroso, anche quando abbiamo avuto in sorte di non doverlo vivere in prima persona.” (da “I diritti sulla strada della giustizia sociale” di Giada Oliva)
Il teatro dei burattini da sempre affronta il tema della vita e della morte. Da quando faccio questo lavoro ho potuto constatare che i bambini sono naturalmente attratti dal Personaggio della Minghina, che è il Personaggio della Morte. Ciò a disdetta delle frequenti remore da parte degli adulti, i quali temono che i bambini rimangano “traumatizzati” e non riescano più a dormire sonni tranquilli. L’angoscia della morte è qualcosa da cui non possiamo preservare i nostri bambini; quello che possiamo invece fare è non rimuovere questa naturale angoscia, ma provare a familiarizzare con questo sentimento, a parlarne senza tabù. Le angosce esistenziali diventano smisurate solo se vengono regolarmente rimosse. Ciò che vediamo nel buio -che pensiamo di vedere nel buio- è sempre più temibile di quel che c’è veramente nel buio. Quel buio può essere attraversato ma solo se c’è coraggio e desiderio di condivisione.
Nelle guarattelle napoletane Pulcinella lotta con vari personaggi (il prete, il guappo, il carabiniere, il cane) ma c’è un personaggio che non riesce mai a battere veramente ed è il personaggio della Morte. Pulcinella, come il nostro Fagiolino, rappresenta la vita e l’amore per essa: entrambi i personaggi cantano la serenata per la loro fidanzata (Isabella/Teresa), amano bere, amano mangiare, non vogliono lavorare… sono gli edonisti per eccellenza e portano sulla ribalta la voce del popolo. La Morte, che qui a Bologna chiamiamo la “Minghina” li sfida, vorrebbe portarli via, e loro si lanciano con lei in un combattimento che pare una danza (danse macabre) ma dal quale non escono mai veramente vincitori. La Morte può essere allontanata, ma non sconfitta. Quella danza a suon di bastonate, sparizioni e riapparizioni, diventa allora un modo per familiarizzare con la Morte. La morte, acerrima nemica ma anche amica di vecchia data, quella con cui, prima o poi, avremo l’ultimo appuntamento.
Il prossimo appuntamento con i burattini è SABATO 11 MARZO ORE 17, presso Burattinificio, via G.P. Martini 26 a Bologna: “L’ORCO PENNUTO“, spettacolo di burattini dai 3 anni in su. Sono aperte le prenotazioni (solo 20 posti) al 3465871003 (anche whatsapp).
Come sempre mi piace leggere ciò che scrivi con tanta passione. A prestissimo