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Il turbamento è una forma di felicità

L’articolo che segue è stato pubblicato sul Blog di Topipittori

di Margherita Cennamo, scritto in collaborazione con Nader Ghazvinizadeh

Burattinificio Mangiafoco è un microteatro per bambini e adulti a Bologna, vicino al portico di San Luca. Burattinificio è anche una compagnia teatrale della quale la burattinaia Margherita Cennamo è il capocomico. Collaborano con la burattinaia: Nader Ghazvinizadeh, scrittore; Brina Babini, artigiana per il teatro; Roberta Spettoli e Michele Cennamo, grafici-illustratori. Umberto Cavalli, musicista. 

“Ma davvero eri tu che facevi tutte quelle voci? Come hai fatto?”. Questa è la domanda che mi sento fare più spesso alla fine di uno spettacolo. Questo stupore tra il pubblico non è suscitato dalle mie capacità interpretative, ma dai burattini. Chiunque indossi un burattino può accorgersi di non averne completamente il controllo. Il burattino possiede un’energia propria che lo porta a condurre una sorta di danza assieme alla mano. La mano è una parte periferica e morfologicamente estranea al resto del corpo umano. Sembra una tarantola, eppure è l’unica parte del corpo, capace di imitarne i movimenti. È la mano il tramite tra la volontà del burattinaio e l’indipendenza istintuale del burattino. Ciò che avviene ogni volta sul palco di una baracca è un’epifania, un meccanismo arcano e ancestrale che riporta qui e adesso vicende dell’altrove. Il nostro repertorio ambisce dunque a mescolare il linguaggio della fiaba alla meraviglia del teatro dei burattini e le trame dei nostri spettacoli si ispirano alla letteratura per l’infanzia, ma anche alla cinematografia fantastica. Nelle fiabe gli eventi narrati sono fantastici ma i sentimenti sono reali. “Il dramma delle fiabe, ruota attorno ai momenti di crisi dell’esistenza”, scrive Maria Tatar.

Il nostro primo spettacolo, “L’orco nel fagiolo”, è liberamente ispirato alla fiaba popolare inglese “Jack e la pianta di fagioli”. In questa storia si trovano in nuce tutti gli aspetti archetipici della fiaba di formazione: il bambino sognatore che scambia un bene materiale importante come una mucca con dei beni insignificanti come tre fagioli; il mistero che avvolge l’identità dell’uomo che scambia con Jack i fagioli magici per la mucca; la madre del bambino che non crede alla magia dei fagioli e li butta prima ancora di averli provati; il Gigante che vive in un castello fra le nubi, possiede tesori meravigliosi e fiuta l’odore di carne umana. Nel nostro spettacolo Giacomino, il protagonista, è un bambino irrequieto, divertito e annoiato dalle nevrosi della madre ansiosa; disprezza la vita frenetica degli adulti e ha giurato a se stesso di restare per sempre fedele alla sua anima giocosa e infantile. L’acquisizione di un fagiolo magico, ottenuto scambiando la mucca Bianchina, lavorante e al tempo stesso balia presso la fattoria, lo porterà a scontrarsi apertamente con la madre, che disprezza l’anima sognatrice del figlio, e ad intraprendere un viaggio che è anche un percorso di crescita. I copioni degli spettacoli vengono scritti assieme a mio marito, il poeta Nader Ghazvinizadeh.

Nel 2016 gli organizzatori del Convegno nazionale Franco Argento ci chiesero di creare uno spettacolo sulla migrazione. Il pubblico sarebbero stati i ragazzi delle scuole superiori di Ferrara e provincia. Fu così che nacque “La Borda: storia di una migrazione”, dramma per burattini in cui la fiaba e le tradizioni popolari si fondono con la quotidianità del mondo: al confine tra l’Emilia e la Romagna, nella Bassa, dove le divinità hanno dimenticato di dividere le terre dalle acque, vivono una giovane ragazza e sua nonna. Per la nipote la vita è la vita che ha vissuto sua nonna, per lei il mondo è la palude. Davanti alla loro casa scorre un fiume stanco in cui, una notte, un camion nella nebbia sversa sabbia avvelenata. In casa non si respira, la notte è scesa e con essa scende la morte sull’intero paese. La ragazza, unica superstite, viene affiancata, nella sua via crucis migratoria, dalla Borda, la strega dei fossi che le nonne del paese evocavano nelle filastrocche per convincere i nipoti a dormire. Volevamo raccontare la migrazione, ma non come fosse qualcosa di esotico, qualcosa di lontano da noi: il punto di partenza della storia è il nostro territorio, e in quella palude c’è il ricordo di me e di mia nonna a Medicina, un paese della Bassa. Poi c’è la Borda, la tradizione popolare che inchioda con un hic et nunc i miti psicologici delle fiabe classiche. Questa fiaba é tutta nell’ambientazione, la terra che circoscrive, che protegge e avvelena; l’acqua che é pianura liquida, che abbassa l’orizzonte.

Immagino la mia compagnia di attori di legno come miniature di esseri umani, non come caricature: devono avere uno sguardo realistico. I burattini tradizionali emiliano-romagnoli hanno invece lineamenti molto marcati e teste grosse. Anticamente gli spettacoli di piazza attiravano grandi folle e i protagonisti sulla scena dovevano essere visibili da lontano. Il Burattinificio, invece, è un teatro da camera per dieci spettatori, un Comunale in miniatura, con piccoli palchetti per abbonati foderati di rosso. Oppure un retrobottega dove tutto è un dietro le quinte, ma è anche tutto un palco e si va in scena assieme ai burattini, appesi a testa in giù, che prendono vita al suonare della campanella. Questo mestiere si apprende da sempre con metodi rinascimentali: la bottega, la corporazione. Chi non è figlio d’arte é autodidatta. Le scuole per burattinai sono relativamente recenti. Si dice che i burattinai imparino rubando. Io rubo con gli occhi, per me l’osservazione è una forma di stima, di autoanalisi. Fino al secolo scorso, nella maggioranza dei casi, il burattinaio-capocomico era un uomo: le donne cucivano i costumi di scena, dipingevano le scenografie, curavano la contabilità della compagnia e interpretavano i personaggi femminili, che avevano sempre ruoli minori perché le maschere maschili sono al centro del repertorio tradizionale dei burattini. Nelle fiabe invece molte protagoniste sono femmine, ma specialmente sono bambine. Nel repertorio tradizionale burattinesco i bambini, invece, non sono mai protagonisti. Oggi i burattini suscitano tenerezza, la tenerezza delle cose antiquate, innocue. Il teatro dei burattini è considerato “il teatro dei nonni”, portatore di valori condivisi, dove gli aspetti antisociali dei personaggi sono assorbiti da un ambiente rassicurante, assolutorio. Si pretende che i bambini escano edificati, non certo turbati, dagli spettacoli. Una filastrocca che, negli anni, é diventata l’inno della nostra compagnia teatrale, recita: “Quando esce Mangiafoco, orco di vernice/il bimbo si spaventa/soltanto se è felice”. Infatti per noi il turbamento è una forma di felicità.