I demotivatori
Mancano 7 giorni alla data prevista del parto. Ormai da tempo, come avessi un orologio incastrato nel petto, mi sveglio, puntuale, tra le 5 e le 5,45. La sveglia reale suona alle 6,45 e, nel lasso di tempo che resta, mi impongo di restare nel letto. Così mi metto a pensare, a volte a rimuginare. Striscianti, arrivano allora le paure: “sarò in grado di prendermi in cura di Neve?”, “… e quando si ammalerà?”, “e l’allattamento?”, “e se i vestiti che le ho preso non andassero bene?”. Continuo a rimuginare per qualche minuto, sentendo l’angoscia che si espande, poi mi rilasso e penso alle origini di questa paura, anzi, di questa demotivazione nei confronti di me stessa. Appartengo a quella generazione cresciuta da genitori sessantottini, genitori cresciuti durante le grandi contestazioni che hanno caratterizzato gli ’60/’70. Il divorzio, l’aborto, i diritti delle donne, la messa in discussione del modello di famiglia tradizionale, intesa come famiglia autoritaria, impositiva. Molti genitori della mia generazione si comportavano come fossero “amici” dei figli: fumavano le canne con loro, li portavano fuori la sera, non facevano mistero della loro vita sessuale, spesso erano separati. Ne consegue che, gran parte dei miei coetanei, sono cresciuti all’ombra dei medesimi miti: la famiglia tradizionale era considerata come un nucleo ottuso in quanto chiuso agli stimoli del mondo. I grandi sogni erano identificati con la fuga all’estero, le passioni amorose fugaci quanto intense, gli amici come compagni di viaggio, compagni nel divertimento più che nella condivisione profonda dei sentimenti. La parola d’ordine era “leggerezza” : “a world without gravity”.
Quando parlo di questa visione del mondo mi riferisco ovviamente all’ ambito sociale in cui ero immersa, un contesto radical chic e di sinistra. In questo contesto era dunque del tutto impopolare parlare positivamente del matrimonio e della possibilità di avere figli; la grande contraddizione delle rivoluzioni è spesso questa: portano un miglioramento delle condizioni di vita degli uomini, in questo caso portarono la liberazione sessuale, il superamento dei ruoli familiari e altri diritti fondamentali, come l’aborto e il divorzio ma, allo stesso tempo, la rivoluzione porta in sé una spinta reazionaria, perché le rivoluzioni vivono di grandi opposti. È la grande guerra fra vecchio e nuovo, fra anziani e giovani. Ma anzianità non significa necessariamente vecchiaia, significa anche memoria. E una storia senza memoria, senza radici, è una storia senza anima, senza sentimento. Si era talmente tanto presi dal demolire i vecchi modelli che, con essi, sono stati demoliti anche alcuni valori indispensabili per crescere i nostri bambini. Un genitore che non impone è un genitore migliore, senza dubbio. Ma un genitore che concede tutto e vuole essere amico del figlio, porta ad esiti educativi aberranti su cui il dibattito pedagogico si è ampiamente concentrato negli ultimi tempi. Le mie angosce mattutine nascono proprio da questo rimestio generazionale: a ventinove anni ho conosciuto mio marito e dopo sette mesi ci siamo sposati in un contesto di riprovazione generale. Nella cerchia delle nostre frequentazioni il matrimonio era considerato un contratto; e non solo da coloro che, fedeli alla loro convinzione, non si sono mai sposati, ma anche da coloro che erano già sposati. I racconti delle persone sposate erano spesso tutt’altro che confortanti. Mi sono scontrata con il medesimo sentimento demotivante nel momento in cui abbiamo iniziato a paventare la possibilità di avere dei bambini; chi li aveva già -non tutti, fortunatamente- non faceva che lanciare pronostici poco rincuoranti, così come erano stati poco rincuoranti i pronostici relativi al matrimonio.
Noto dunque l’insopportabile impellenza, fin troppo generalizzata, di universalizzare le proprie esperienze personali. Percorsi come il matrimonio o la genitorialità, sono invece percorsi prima di tutto personali. Prima di restare incinta ho avuto lunghe discussioni con mamme che sostenevano che, in quanto non mamma, non potevo assolutamente capire cosa si provasse ad essere mamme. Lo stesso discorso l’avevo sentito fare dalle donne sposate: finché non ti sposi non puoi capire cosa significhi essere sposate. Il problema è che nemmeno loro, spesso portatrici di pronostici demotivanti, potevano capirlo, ed universalizzavano la loro insoddisfazione, le loro frustrazioni, la loro fatica, pensando che finché non l’hai provata, non puoi sapere che cos’è. Nel corso di questa gravidanza, proprio per evitare commenti e consigli non richiesti, non ho condiviso su Facebook quasi nulla; nonostante ciò ho ricevuto molto affetto e molti messaggi pieni di gioia in vista dell’arrivo di Neve. Molti altri messaggi, invece, avrei preferito non riceverli, perché contenevano avvertimenti quasi terroristici su ciò che sarebbe stato. Alcuni esempi: “adesso, quando nasce, vedrai che di film ne vedi meno”, “presto saprai cosa vuol dire dover incastrare tutto”, “pensi che sia dura ora? Aspetta di allattare: perderai tutti i capelli e diventerai flaccida”, “tanto per i prossimi anni non riposerai più, quindi rassegnati”… quando stavo per sposarmi ho ricevuto la medesima sfilza di pronostici demotivanti e non richiesti. Ma poi il matrimonio non è stato affatto come mi veniva pronosticato. Questo non vuol dire che sia filato tutto liscio. Anzi. Ma quei pronostici non tenevano conto delle due variabili più ovvie e più importanti: me e Nader. Per questo motivo non amo quasi mai, per usare un eufemismo, il mummy blogging: su quei blog dovrebbe essere scritto a caratteri cubitali “QUESTA È LA MIA ESPERIENZA. LA MIA. NON LA UNIVERSALIZZERÒ E NON FARÒ LA MAMMA CHIOCCIA CHE INSEGNA A VOI POVERE MAMME NON ANCORA MAMME IN CHE GUAIO VI STATE CACCIANDO”. Alla fine di questa riflessione la sveglia è suonata e Nader è andato a scuola. Io mi accingo ad un’altra giornata casalinga, tra progetti burattinologici e lavori di casa. Un altro giorno in attesa di Neve. Ho finito di costruire la sua camera; all’inizio avevo guardato su internet le linee guida per costruire la cameretta del proprio bambino. Consigliavano pochi colori, meglio se chiari, poche cose, pochi oggetti, ecc… ma casa nostra è grande 60 mq, quindi alla fine non ho seguito nessuna linea guida, in camera di Neve c’è la mia sartoria, un sacco di colori, un soppalco castello che ho costruito alcuni mesi fa con l’aiuto del falegname. A quanto pare la sua stanza sarà tutt’altro che montessoriana e la mamma cucirà i pupazzi accanto al suo lettino.
Tutte le meravigliose e delicate illustrazioni contenute in questo post sono di Joanna Concejo: visitate il suo BLOG.