“Oltre il cavolfiore” è in silenzio da quasi un mese, ed oggi avrei voluto parlare di routine a BurattiNido e di pedagogia; ma battendo sui tasti ho finito per raccontare di me, della mia vita, del mio passato, dei miei sogni. Evidentemente, in questo lunedì di luglio, la storia che voleva essere raccontata era questa:

L’estate è per me il tempo dell’infanzia. Durante il mese di luglio io e mio marito ci trasferiamo ai Lidi di Comacchio, nella casa che fu dei miei nonni a partire dagli anni sessanta, gli anni d’oro della riviera emiliana; è una casa di palude e di vento, di “palude” perché sorge vicino alle vene di Bellocchio, di “vento” perché, se non fosse per la pineta, il vento del mare farebbe oscillare i suoi vecchi mattoni come il tronco di un albero. Ogni mese di luglio i miei burattini raccontano fiabe ai bambini che corrono sulla spiaggia e che vivono l’età del presente, l’età degli anni in tasca. Quelle dieci dita sono ancora qui, strette nelle tasche dei miei pantaloni. Quando torna l’estate le tiro fuori, le faccio respirare e le osservo. Sono invecchiate queste dita, ma hanno buona memoria, e si mettono a frugare negli scomparti dei ricordi. L’estate diventa così anche un tempo dedicato al sogno e alla costruzione di quel sogno: disegno, scrivo, leggo, penso. Sto progettando la nuova muta di burattini in legno. Dopo i miei primi 12 anni da burattinaia (2004/2016) sento che i miei personaggi sono pronti  ad assumere una forma concreta, definitiva. In questi 12 anni li ho guardati nascere, cambiare, crescere e infine stabilizzarsi. 

All’inizio ci sono stati “i burattini del prete”, una muta classica ereditata da mio padre e scolpita da un prete bolognese che si divertiva ad intagliare il legno. I loro volti, pure belli, non erano quelli dei miei sogni, quelli delle mie fiabe. Ma, al momento della partenza, non mi ponevo questi interrogativi. Ho preso quelle teste e le ho vestite. Mia madre aveva una vecchia Singer che non usava, e su quella Singer ho cucito i primi camiciotti, imprecisi, difficilmente manipolabili. Con quella muta estemporanea sono andata avanti per cinque anni, fino al 2008. Poi c’è stato per me un periodo di grande buio, personale e professionale. Per un anno non riuscii più ad andare in scena. Non provavo più alcuna soddisfazione per quello che facevo. Il lavoro con i burattini tradizionali non mi piaceva e per me i “burattini” erano inscindibili dal repertorio tradizionale, le trame che vedevano protagonisti Sganapino, Fagiolino, Balanzone, Sandrone… I miei anni in tasca non mi erano mai sembrati tanto lontani. Inaspettatamente, durante quel periodo di blocco, arrivò il premio MAF. Durante l’estate del 2009 mi trasferii nella casa a “fondo di palude”. In quel luogo d’infanzia mi misi a frugare nelle tasche e trovai dei ricordi luminosi che mi aiutarono ad uscire dal buio: ricordi di quando mio padre, da piccolissima, mi portava nel laboratorio teatrale del burattinaio Demetrio Presini; quel luogo, che si trovava sotto la Biblioteca Sala Borsa, in Piazza Maggiore, aveva le luci basse, i soffitti alti e i burattini dormivano all’interno di teche di vetro, fra gli scalpelli e i trucioli di legno. Poi c’era il Teatro San Martino, in San Vitale, dove vedevamo spettacoli di teatro di figura/teatro ragazzi; nella sala, una volta che le luci si spegnevano, l’atmosfera diventava rarefatta ed evocativa. Un pomeriggio misero in scena la fiaba di Biancaneve: la mela avvelenata si gonfiava e diventava un enorme bolla rossa che invadeva il palco. Nelle tasche, oltre ai ricordi di teatro, trovai ricordi di lettura; giornate passate a leggere, saltando da una storia all’altra: il nano che filava la paglia d’oro e voleva in cambio un bambino, la ragazza dai capelli d’oro e la stella in fronte, le noci che nascondevano giganti, la piuma che cascava su una botola segreta, la donna nascosta nella pianta di rosmarino, la strega con la casa che poggia sulle zampe di gallina. In quelle trame trovai il segreto del fuoco e capii che era da lì che dovevo ripartire.

L’autunno del 2009 ho deciso che non sarei rientrata in baracca e che avrei messo definitivamente Fagiolino e Sganapino in valigia; nella vecchia sede del Burattinificio, sotto il portico di Saragozza, cominciai a raccontare fiabe con pupazzi. Appoggiavo gli oggetti su un vecchio Baule Verde e narravo a pochi bimbi le avventure di Giacomino, di Raperonzolo, di Hansel e Gretel… Ai bambini facevo timbrare un biglietto del treno immaginario. Gli adulti spesso non capivano e si mettevano a cercare il biglietto nella borsa. I bambini, piccolissimi, due/tre anni, porgevano subito il loro biglietto e a volte ne specificavano anche il colore: “il mio è rosso”, “il mio è color argento”. Ed infine c’era la partenza per quella terra immaginaria che avevo soprannominato “Bosco di Rovo”, traendo ispirazione dal bellissimo libro di Jill Barklem, in cui i topolini vivono all’interno di un cespuglio di rovi. A “Bosco di Rovo” cominciavano tutte le fiabe e “Bosco di Rovo” era fisicamente dietro quel baule verde, pieno di pupazzi e oggetti che utilizzavo per animare la narrazione. Un sabato pomeriggio, subito prima di partire per “Bosco di Rovo”, quello che dopo sette mesi sarebbe stato mio marito, Nader, si affacciò alla porta del Teatrino mentre stavo sistemando sulle panchette delle caramelle per i bimbi. 


Lentamente, nei mesi e poi negli anni, sul baule hanno cominciato a comparire altri oggetti: prima un frontone, poi una scenografia, poi dei guanti neri… la baracca ha ricominciato a costruirsi intorno a me. I pupazzi sono diventati sempre di più e cuciti sempre meglio: è nata una cosmogonia di pupazzi che non vivano solo nella fiaba da cui erano nati originariamente, ma che avevano imparato a saltare da una storia all’altra. Quando è successo ho scoperto di averlo sempre saputo: a quattro anni correvo nel lettone/castello in cui mio Nonno Gino, al suo risveglio mi raccontava le fiabe mescolando fra loro i personaggi delle fiabe con quelli dei fumetti e della mitologia. Il drago Eliot bruciava il sedere della mucca Clarabella, che correva a rifugiarsi nel Castello di Re Artù e i cavalieri della tavola rotonda… Le fiabe non erano scollegate fra loro, vivevano in un Regno in cui danzavano, in circolo. Lo scorso Natale ho raccontato “La Regina della Neve” di Andersen ed ho utilizzato i pupazzi di tutte le fiabe degli ultimi anni. E’ stato allora che ho capito che i pupazzi erano pronti a diventare burattini, che le braccia dovevano tornare in alto e che la burattinaia era pronta a ritrovare casa all’interno del suo teatrino. Grazie ai miei anni in tasca, ma anche grazie a tutti i ventisette anni successivi, stanno dunque prendendo voce e volto i miei personaggi di legno. Ad autunno, sette anni dopo la nascita di “Bosco di Rovo”, i burattini torneranno nel boccascena, mescolando pomeriggi d’infanzia passati nella tana di Presini a pomeriggi passati nella sala del Teatro San Martino. 

Estate è il tempo dell’infanzia, un tempo che torna sempre, dopo che l’orologio della vita ha compiuto il suo cerchio. A volte tornare a quell’estate, tornare a quell’infanzia, è l’unico modo di ritrovare il cammino che abbiamo perduto. Buona estate a tutti, “Oltre il cavolfiore” torna dopo Ferragosto.