La Drammaturgia della Mano #1

PREMESSA

“La drammaturgia della mano” è un reportage che tratterà del mio stile di costruzione (per stile di costruzione intendo la tecnica e materiali con i quali sono costruiti i burattini), degli stili di costruzione di vari burattinai e di come la drammaturgia influenzi questo processo manuale. La presente riflessione parte dai miei ricordi e dalla mia storia di burattinaia e si intreccia con le storie dei vari burattinai che ho incontrato lungo il mio percorso. Ho contattato via mail alcuni colleghi e quelli che hanno avuto la cortesia e il tempo di rispondermi saranno citati in questo e nei prossimi articoli. Questa ricerca nasce dal desiderio di sapere come i miei colleghi, quelli contemporanei e spesso coetanei, vivano questa professione. I dubbi, le incertezze, il modus operandi, le crisi, le gioie, i traguardi raggiunti. Spero che questa ricerca non resti un tentativo sporadico ma si sviluppi, avviando un confronto attivo fra persone che lavorano nel campo del teatro di figura. Ritengo che il confronto sia vitale per crescere umanamente e professionalmente e perciò, almeno una volta all’anno, cerco di frequentare Festival e Laboratori: in questo modo ho l’occasione di sentire altri punti di vista e arricchire il mio mondo interiore. 

Buona lettura, Margherita

DAL GIOCO AL TEATRO

Da sempre mi ha attratto la ricerca del respiro nelle cose. Negli oggetti percepivo un’ esistenza oscura; ravvisavo tracce di quell’esistenza attraverso il gioco. I fiori capovolti diventavano donne con grandi gonne, i braccialetti e le collane della mamma mutavano in dame riccamente vestite, le tazzine da caffè a forma di oca si trasformavano in imbarcazioni, la scopa era un personaggio muto ma in grado di compiere azioni. Le scope diventarono indiscusse protagoniste dei miei giochi dopo aver visto l’episodio l'”Apprendista Stregone”, all’interno del film Fantasia della Disney . Disegnavo su un’agenda le avventure di una dinastia di “ramazze”. I momenti di gioco solitario erano lunghi e, a tratti, stordenti. Quel gioco farfugliato tra me e me, in cui i personaggi si muovevano nella cornice di fiabe e film che mi avevano suggestionato,  seguitava per ore ed ore. Credo che che questo sia il modo migliore di procedere, per un bambino ma anche per un professionista: leggere, guardare, giocare. Il Teatro è il gioco del bambino ri-organizzato logicamente. La trama teatrale, a differenza della trama nel gioco, non avanza secondo un disegno casuale o secondo una libera associazione di suggestioni. La trama è pensata. Scritta. Infine, messa in scena. 

PRESINI E IL TEATRO SAN LEONARDO

Ho amato fin da piccola il teatro di figura. Ma non amavo i burattini tradizionali. Mio padre mi accompagnava nel laboratorio sotterraneo di Presini, che un tempo sorgeva sotto Sala Borsa. Non capivo nulla di quello che accadeva in quegli spettacoli: i personaggi erano vecchi, brutti, volgari. La trama era un insieme di equivoci e stupidità; stupidità data dal fatto che i personaggi erano d’altronde stupidi e senza grazia: quei burattini sbilenchi e sgrammaticati erano solo uno galleria di freaks angoscianti. Una volta uscita dalla sala buia, avevo voglia della freschezza di certe fiabe. Sfogliavo i cataloghi della Fiera del Libro, perdendomi nelle tavole degli autori: in quei disegni anche il brutto, il freak, il mostruoso non era asfittico; apriva invece il mio sguardo su altri pensieri, altri mondi. Nel mondo dei burattini tradizionali mi sentivo invece intrappolata in una Bologna piccola, provinciale, in cui predominava la voce di un popolo di cui non sentivo di far parte. I sogni più belli li facevo invece nella sala del teatro San Leonardo, di cui ho disperatamente cercato on line, senza successo, la programmazione teatrale negli anni ottanta. I ricordi di quegli spettacoli si perdono nel mito: luci, voci, colori… erano eventi suggestivi in cui la storia veniva raccontata attraverso un’atmosfera; in quegli spettacoli non c’era traccia di regionalità, ma di universalità

OTELLO SARZI E LUCA RONGA

Con il termine dell’infanzia sono arrivati altri interessi, ma le fiabe sono rimaste una costante nella mia vita. Tenevo un volume di fiabe sul mio comodino e alternavo la loro lettura a quella dei libri di Stephen King, narratore pop contemporaneo, le cui storie affondano le loro radici nell’oscurità del fiabesco: il sottosuolo, la provincia, le leggende, la natura, la vita, la morte, la crudeltà. Negli anni novanta mio padre Ugo ricominciò a frequentare il teatro dei burattini, grande amore giovanile mai dimenticato. Lui e mio fratello passavano una settimana in campeggio a Cervia e seguivano il festival “Arrivano dal Mare”. Ugo frequentò un paio di corsi di costruzione di Natale Panaro, a Sorrivoli, e realizzò la sua prima muta di burattini (che Panaro definirebbe “naif” ma che io amo molto) e costruì una baracca rudimentale, un semplice separè più che un teatrino, ma fu così che cominciò a fare spettacoli, prima per i piccoli della famiglia, poi per qualche compleanno di figli di amici. Nel 2002 Ugo affittò la prima sala del Mangiafoco, in via Saragozza 201/b, e da lì cominciarono gli spettacoli per i bimbi del quartiere. Qualche volta seguivo mio padre nelle sue repliche, ai compleanni e alle manifestazioni pubbliche. Ma continuavo a non amare quei burattini per le stesse ragioni per le quali non li amavo da bambina: erano mostruosi e gretti, li vedevo ben piantati a terra, non mi sembrava potessero offrire al pubblico la capacità di sognare, di volare in alto con la mente. Con questo stato d’animo capitai alla seconda edizione del Corso “Il Mestiere del Burattinaio” organizzato da “Arrivano dal Mare”; non volevo lavorare con i burattini, cercavo altre tecniche di narrazione. A Cervia vivevo con una ragazza di nome Flavia in un appartamento non lontano dal mare. Flavia era un concentrato di energia, fantasia e follia. Veniva da Piacenza e amava i burattini di Otello Sarzi. Lei non aveva dubbi: voleva i burattini! Cominciammo a guardare molti video di burattini, generosamente messi a disposizione dal ricco archivio della nostra scuola per burattinai. Non avevo mai visto gli spettacoli di Otello Sarzi: lui era diverso dai burattinai che avevo conosciuto nella mia infanzia. I suoi spettacoli avevano qualcosa di malinconico e di sognante; quell’atmosfera nobilitava i suoi personaggi popolari, che non risultavano volgari, ma dolcemente schietti; proprio come i personaggi del film Amarcord di Federico Fellini, in cui le grettezze della provincia vengono elevate grazie al romantico sguardo del regista sul mito di un mondo popolare perduto, metafora dell’infanzia terminata.  Poi ci fu la scoperta della guaratella napoletana: fra gli allievi dell’anno precedente al nostro c’era Luca Ronga, oggi burattinaio professionistaNel corso di quell’anno e mezzo di formazione ad “Arrivano dal Mare” ho dunque fatto pace con il burattino e ho scoperto le sue potenzialità: rispetto alla marionetta, al pupazzo e ad altri tipi di figure, il burattino è “lesto”, “luciferino”, “inafferrabile”. E’ per sua natura irriverente, chiassoso, politicamente scorretto. In lui c’è tutta la voglia di libertà e di fare festa tipica del popolo. Il burattino incarna i desideri comuni a tutta l’umanità: vuole amare, bere, mangiare, correre, vivere con tutto il suo spirito; e, naturalmente, è sempre in costante lotta con i prepotenti di turno ma ancor di più con il Male e la Morte. Nel 2003 io e la mia classe di apprendisti burattinai andammo in Polonia, presso l’Akademia Teatralna di Bialystok: Luca già allora faceva spettacoli con Pulcinella al Festival organizzato dalla cittadina. Una domenica andammo a casa del nostro maestro di teatro di oggetti, che viveva in una casa in mezzo alla palude. In quel contesto suggestivo, nelle campagne polacche, Luca si esibì solo per noi. Quel suo spettacolo, così come un altro suo spettacolo, sempre di quell’estate, a mezzanotte presso il Magazzino del Sale di Cervia, rimane fra i ricordi più belli di quel periodo. Pulcinella saltava, cantava, lottava. Non era solo una figura animata; era vivo, era vero, era pieno di vita così come lo erano stati i miei giocattoli d’infanzia: le ochine, i fiori, i gioielli della mamma, le scope.

DON DANTE BALDAZZI, MARISA MANDRIOLI, TEATRO DELL’AGLIO

Tornata dalla Polonia costruii la mia prima baracca di burattini: fu solo la prima di una lunghissima serie di baracche mal riuscite. Il mio primo vero teatro sono riuscita a realizzarlo solo nel 2014: prima è stato un continuo procedere per prove ed errori. Accanto alla prima baracca, ci fu la prima muta di burattini; mio padre, nelle sue continue peregrinazioni a caccia di burattini, aveva conosciuto un prete di nome Don Dante Baldazzi, venuto a mancare il 9 ottobre scorso. La storia di Don Dante potete leggerla cliccando QUI. Mio padre comprò moltissime teste da Don Dante, tante le conservo qui in casa e devo ancora vestirle del loro camiciotto. Don Dante faceva le teste di diverse misure: quelle più grandi sono esposte a Burattinificio e sono quelle che, per un periodo, mio padre ha usato per fare spettacolo. Quella muta è particolarmente bella non solo per la particolarità e la grandezza della scultura ma anche per i costumi, cuciti dalla Burattinaia Marisa Mandrioli in persona, figlia del celebre burattinaio bolognese Gualtiero Mandrioli. Marisa, che conobbi qualche anno fa nella sua mansarda di via Santa Caterina a Bologna, ha scritto una biografia del padre che potete trovare in sala borsa: “Mio padre, Gualtiero Mandrioli, un grande Fagiolino” del 2001A questa pagina c’è invece un suo articolo di vibrante protesta (la Marisa non le manda a dire a nessuno) di cui consiglio lettura: Burattini e Burattinai Bolognesi : una precisazione sugli errori più frequenti”. Fra gli allievi del corso di Arrivano dal Mare c’era anche Massimiliano Venturi, oggi burattinaio professionista nonché organizzatore della Rassegna “Burattini alla Riscossa” a Ravenna e “Comacchio a Teatro” a Comacchio: per Natale regalai quattro teste grandi a Massimiliano, che si innamorò dello stile di Don Dante e si recò a Bologna a conoscerlo. La muta di burattini di Massimiliano è ancora oggi composta dai burattini di Don Dante, anche se le teste grandi, tipiche dei burattinai del secolo scorso, vennero sostituite da teste più piccole e quindi più maneggevoli. 

IL PREMIO “VENUTO DALLE STALLE” e I PUPAZZI VOODOO

Dal 2004 al 2008 ho dunque utilizzato la muta di Don Dante. Il mestiere del burattinaio era per me nulla più di un part time. Nel mentre ho lavorato in biglietteria al Teatro delle Celebrazioni e al Teatro Testoni e intanto mi sono laureata in Scienze della Formazione. Non volevo investire tutto sul mestiere da burattinaia; non tanto perché non pensassi che potesse essere un mestiere, quanto perché sentivo che non ero ancora  riuscita a trovare una dimensione soddisfacente all’interno del mestiere. Per quanto avessi intuito la potenzialità del burattino, ero ben lungi dal riuscire a sfruttarla. I copioni tradizionali erano lontani anni luce da quello che desideravo narrare. I personaggi della tradizione, a loro volta, non avevano apparentemente nulla in comune con me. Sganapino aveva qualcosa di Stanlio, Fagiolino qualcosa di Ollio, personaggi da me amatissimi nell’infanzia. Ma quel nonsense, perfetto negli scambi fra Stanlio e Ollio, era del tutto artefatto fra il mio Fagiolino e il mio Sganapino. Andai comunque avanti per anni, facendo spettacoli sporadici, fino al 2008, quando decisi di smettere completamente. Fu un periodo di profonda crisi artistica/esistenziale, in cui appesi al gancio i miei burattini e aspettai. Nel 2009, inaspettatamente, ho ricevuto il premio MAF. Ancora oggi non so chi mi abbia segnalato. Mi recai alla premiazione e, ogni burattinaio premiato, doveva mostrare uno stralcio del proprio spettacolo. Mi presentai senza baracca e con qualche burattino. Avevo scritto una scena mescolando un copione antico, “Fagiolino creduto donna”, a un film che avevo visto recentemente e che mi era piaciuto molto, “Midnight Cowboy” di John Schlesinger, con Dustin Hoffmann. Il titolo dello spettacolo era infatti “Fagiolino Midnight Cowboy” o qualcosa del genere. Recitai all’interno della baracca di Mattia Zecchi, al tempo giovanissimo burattinaio in erba, premiato a sua volta. Ne uscì un pasticcio che sono felice di non ricordare. Fra i premiati c’era anche Luca Ronga, in compagnia di Brina Babini, scultrice e scenografa. Brina e Luca hanno fondato l’Atelier della Luna, che annualmente organizza workshop ai quali penso valga la pena prendere parte. Luca fece un bel discorso che trascrissi sul mio taccuino da burattinaia: “…a volte è più unico un premio venuto dalle Stalle che uno venuto dalle Stelle; perché le Stalle ti lasciano un odore sulla pelle che, a me, piace di più”.  Ed io, che dalle Stelle mi sentivo caduta da tempo, decidi di ripartire da quelle Stalle. Durante l’estate ricominciai da dove avevo interrotto (ho parlato di quel periodo in un post scritto alcuni mesi fa). Nella prima sede del Mangiafoco, in via Saragozza, ripartii dunque con le narrazioni di fiabe, abbandonando momentaneamente lo spettacolo di burattini. Quello che mi mancava e che mi era sempre mancato era una drammaturgia solida e la mia ricerca era volta a trovarne una. I pupazzi nacquero dal bisogno di riappropriarsi di quella dimensione animista che mi aveva accompagnato nell’infanzia. Narravo ai bambini le storie giocando, così come gioca un bambino: tiravo fuori vari oggetti, vari pupazzi e narravo “all’improvviso”. Una volta un papà, scherzosamente, mi disse “anche per oggi abbiamo finito la terapia di gruppo”. Aveva ragione! Lo spettacolo non era solo mio, era anche dei bimbi presenti in sala, che intervenivano, parlavano con i personaggi, spesso anticipavano il finale e mentre loro lo raccontavano io lo illustravo attraverso i pupazzi. C’erano tutte le basi del gioco strutturato: “facciamo finta che io ero”, “facciamo che tu andavi di là”, ecc… Quel lavoro con i bambini mi aiutava a delineare le fondamenta della mia drammaturgia: più imparavo, più marcavo il confine fra il gioco e il teatro. Nel momento in cui la mia drammaturgia ha raggiunto una forma più matura (non certo completa, ancora oggi sono in cerca!), l’interazione è diventata più limitata, lo schema sempre più chiuso. Raggiunto questo traguardo, era tempo di mettere mano alla parte visiva dello spettacolo. Mi ero resa conto da tempo che la muta di Don Balduzzi non c’entrava nulla con i miei spettacoli: i burattini dagli occhi grandi e sgranati da cartoon, la loro espressione -come direbbe mio padre- da “cretinetti” contraddiceva, a tratti sviliva, quanto provavo comunicare. Cercavo maschere che avessero uno sguardo umano, uno sguardo realistico. Il burattino doveva apparire come essere umano in miniatura e non come la caricatura grottesca di esso. In questa ricerca mi ha aiutato il talentuoso burattinaio Gaspare Nasuto, che mi ha dato per altro lo spunto per il titolo di questa serie di articoli. Parlerò approfonditamente di lui, dandogli lo spazio che merita, nel prossimo post.

Per leggere il capitolo successivo: La Drammaturgia della Mano #2

no images were found